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20 anni dalla morte di Tupac, uomo e mito

20 anni. E’ questo il tempo che è passato dal giorno in cui Tupac Amaru Shakur, in un letto d’ospedale di Las Vegas, s’è arreso al fantasma della morte.

Nonostante i ricordi di quell’epoca ci sembrino oggi così lontani e rarefatti (alcuni lettori, probabilmente, non erano nemmeno nati), sembra proprio che due decadi tonde non siano bastate per sbiadire la leggenda intorno alla figura di un uomo che ha utilizzato la musica rap come veicolo per trasmettere messaggi di caratura universale, dai quali tutti possiamo ancora enormemente imparare per la loro cinica attualità.

Sembra esser diventata una consuetudine, ormai, indicare Tupac come il personaggio principale nella storia dell’hip-hop o, almeno, quello più rispettato ed amato degli ultimi venticinque anni, ma cadere nello stereotipo della profondità dei suoi testi rischia di sminuirne la grandezza, facendoci scordare che egli non è stato soltanto un incredibile cantautore, ma anche e soprattutto uno dei più illuminati pensatori del secolo scorso.

Se si vuole parlare di Tupac nella maniera corretta, in effetti, non basta inquadrarlo come rapper: per i pochi anni che ha abitato questa Terra, il figlio della compianta Afeni ha saputo superare le barriere ideologiche che normalmente – salvo rarissime eccezioni – separano le celebrità dell’intrattenimento dal mondo reale, quello abitato dai reietti, dai dimenticati, da quei cosiddetti “ultimi” che la società occidentale, spesso e volentieri, abbandona alla miseria senza rimorsi; l’ha fatto credendo di poter illuminare le menti di coloro che, un domani, avrebbero costruito un mondo migliore, secondo quel modus vivendi simil-messianico che ha incantato e continua ad incantare milioni di giovani entusiasti in ogni continente.

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Tupac, dall’alto della sua esperienza tra gli invisibili, ha saputo trovare le giuste parole per rovesciare il tavolo e dare una voce a chi non l’aveva, proponendosi come uomo del popolo, senz’altro ricco ad un certo punto, ma mai distante con il cuore dalla gente con la quale aveva vissuto la maggior parte dei suoi giorni.

Negli ultimi anni, sfortunatamente, troppe considerazioni sbagliate sono state fatte sul suo conto, e l’errore più grande è stato forse e paradossalmente quello d’innalzarlo allo status di “leggenda”, il che ha fatto dimenticare ai più la pura essenza del suo essere: Tupac, infatti, era un uomo come tanti, soltanto una goccia in un oceano inquinato, agognante di portare il suo messaggio a chiunque volesse ascoltarlo, perché sapeva quanto la musica potesse colpire l’anima delle persone, molto più di mille comizi politici ed altrettanti sermoni liturgici.

Ciò che rende Tupac così speciale e mai datato, in fin dei conti, è proprio la sua sfrontata normalità: riusciamo a sentirlo vicino perché, effettivamente, lui è stato vicino a tutti noi, liberandoci dall’idea che i grandi cambiamenti potessero venire solo dall’alto e rafforzando quindi il credo primario del movimento hip-hop, quello che vede il popolo – o l’individuo – padrone del proprio destino, in costante guerra con il potere ingiusto e mai domato, una dottrina a cui la globalizzazione ha permesso oggigiorno di trasformarsi in manifesto per chiunque senta il bisogno di ribellarsi, ovunque si trovi e qualsiasi lingua parli.

Quante persone, infatti, preferiscono ancora ascoltare un brano tratto da “All Eyez on Me” piuttosto che le canzoni proposte in rotazione continua da radio mainstream come Hot 97? Ci sono valori che non dovrebbero mai andare perduti, e guai se l’immenso bagaglio culturale che oggi ha preso in consegna la nuova generazione di fans e artisti dovesse ridursi ad un banale circus privo di contenuto: buona parte di ciò che Shakur ha voluto trasmettere riguarda proprio l’integrità morale necessaria per chi si avvicina a questa cultura, quanto un singolo orecchiabile sia totalmente inutile, se questo non porta con sé un insegnamento.

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E’ all’utilizzo della penna come una spada che Tupac ha dedicato la sua breve esistenza, sublimando il credo per cui l’hip-hop ha ragione d’esser tale, ed è per la salvaguardia del concetto più stretto di comunità, per il futuro di essa e perché essa non si snaturi che dobbiamo continuare a dare alla sua opera valenza didattica.

Gli errori commessi nell’ultimo anno di vita, purtroppo, gli sono stati fatali, e la morte – come molto spesso accade – non ha fatto altro che glorificare ancor più la sua eredità, anche attraverso le più strampalate congetture – di stampo chiaramente hollywoodiano – che lo vorrebbero beato da qualche parte, magari al sole di L’Avana, dopo aver inscenato il proprio tragico omicidio.

La realtà, tuttavia, è sempre lontana anni luce dal complottismo di chi non riesce ad accettare la morte del proprio beniamino, e coloro che continuano imperterriti ad agitare le acque su un possibile e clamoroso “bluff” messo in atto da Tupac per sottrarsi ad una non meglio specificata persecuzione dovrebbero approfittare di questa cruciale giornata dedicata al ricordo per smetterla di speculare sul nulla.

Oggi, quindi, alziamo il volume degli stereo e celebriamo con razionale ardore la vita di un uomo straordinario, ma senza infangarne il ricordo, credendolo sfuggito ad una vita travagliata in favore di una quiete che, tuttavia, non era mai stata parte della sua vita, non aveva mai conosciuto e che, forse, neanche lui avrebbe veramente voluto.

 

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

 

 

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Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Classe 1991, vive e lavora a Milano. Esperto di cultura Hip-Hop statunitense, collabora con Mondo Rap dall'ottobre del 2015.